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L’infinito - di Giacomo Leopardi - Parafrasi e commento

L’infinito - di Giacomo Leopardi - Parafrasi e commento
Autore: Sistema
Data: 19/10/2025
Tipo: Materiale didattico
Dimensione: 6920 caratteri
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Contesto, argomento, messaggio

L'infinito è una delle liriche più famose dei Canti di Giacomo Leopardi. Il poeta la scrisse negli anni della sua prima giovinezza a Recanati, sua cittadina natale, nelle Marche. Le stesure definitive risalgono agli anni 1818-1819.

La lirica, composta da 15 endecasillabi sciolti, appartiene alla serie di scritti pubblicati nel 1826 con il titolo "Idilli". Oltre all'Infinito, in questa serie sono presenti anche altre note liriche, come Alla luna e La sera del dì di festa. Il termine greco "idillio" (ε?δ?λλιον), di solito riferito a componimenti poetici incentrati sulla descrizione di scene agresti, subisce, con Leopardi, una ridefinizione: negli idilli leopardiani sono assenti le tematiche bucoliche proprie dei componimenti scritti dai poeti greci e latini. L'idillio leopardiano è un componimento connotato da un forte intimismo lirico: in esso l'elemento del paesaggio naturale (spesso privo dei connotati del paesaggio ideale antico) è strettamente legato all'espressione degli stati d'animo dell'uomo.

Il questo componimento il poeta prende spunto dal ricordo di un luogo a lui familiare il monte Tabor, per riflettere sul significato dell'infinito.

Sulla cima del monte, una siepe impedisce allo sguardo di spingersi lontano; ma quello che è di ostacolo alla vista, diventa stimolo per l'immaginazione. Il poeta si ritrova ad immaginare spazi sconfinati e infiniti silenzi, fino a provare un senso di vertigine e di sgomento. L'improvviso stormire del vento tra le fronde lo riporta alla realtà e gli suggerisce l'idea dell'eternità, del tempo infinito. La suggestione è così intensa che il poeta si immerge in quella dimensione senza tempo, provando un senso di piacevole abbandono.

Lingua, stile e forma metrica

Canzone libera di quindici versi, endecasillabi sciolti (privi di rima). L’uso dei dimostrativi (questo cole, quella siepe) permette al poeta di giocare tra il finito e l’indefinito, creando un continuo rimando tra realtà e immaginazione (questo indica vicinanza, quello lontananza). Il poeta utilizza molte figure retoriche tra cui ricordiamo i numerosi enjambement (versi: 4-5; 5-6; "interminati/spazi", "sovrumani/silenzi") e il polisindeto dei versi 11, 12 e 13 (il susseguirsi di 4 congiunzioni: e…e…e…e).

Il linguaggio di Leopardi è caratterizzato dall'uso di termini sia letterari, propri del linguaggio poetico (ermo, guardo, mirando, stormire, sovvien), sia semplici, propri del linguaggio familiare (caro, orizzonte, dolce, mare)

 

                                                                                                                                           
  1. Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
  2. e questa siepe che da tanta parte
  3. dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
  4. Ma sedendo e mirando, interminati
  5. spazi di là da quella, e sovrumani
  6. silenzi, e profondissima quiete
  7. Io nel pensier mi fingo; ove per poco
  8. Il cor non si spaura. E come il vento
  9. odo stormir tra queste piante io quello
  10. infinito silenzio e questa voce
  11. vo’ comparando: e mi sovvien l’eterno,
  12. e le morte stagioni e la presente
  13. e viva e il suon di lei. Così tra questa
  14. immensità s’annega il pensier mio:
  15. e il naufragar m’è dolce in questo mare

 

Sempre cari mi furono questo colle solitario (ermo) [[il monte Tabor, non lontano da casa Leopardi]] e questa siepe [[ la siepe rappresenta l'elemento fisico che da ostacolo allo sguardo si trasforma in vettore della sua immaginazione) che sottrae alla mia vista (il guardo esclude) gran parte del lontano orizzonte (ultimo orizzonte).

Ma [[ introduce un'avversativa, si contrappone a "esclude": la siepe esclude lo sguardo, non l’immaginazione]] stando seduto e osservando [[mirando - ha quasi il valore di "fantasticando"), immagino nella mia mente (nel pensier mi fingo) spazi sconfinati al di là di quella siepe, silenzi che superano le facoltà umane (sovrumani silenzi - iperbole) e una profondissima calma, tanto che per poco il cuore non si spaventa (spaura).

E non appena sento frusciare il vento tra le piante, io metto a confronto questa voce [[del vento]] col silenzio dell'infinito: e mi viene in mente l'eterno e il tempo passato (le morte stagioni) e quello presente che pulsa di vita (viva) e di cui avverto i suoni (e…e…e…e - polisindeto)

Così in questa immensità si annega il mio pensiero, e mi è dolce perdermi (naufragar) in questo mare (naufragar…mare - la metafora) (naufragar m’è dolce = ossimoro) [[La metafora del naufragio rende l’idea di un annichilimento che è però uno smarrimento piacevole]].